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Le Catechesi di Regina Mundi
FEDE E CENTRALITA’ DI GESU’
Parliamo spesso di fede, ma forse ci sfugge il suo significato più vero. Legittimo allora interrogarsi su che cosa è la fede e sulla individuazione dei suoi contenuti. L’urgenza della domanda deriva anche dal fatto che possono esserci errori nel modo come viene intesa la fede dalla massa dei credenti. L’indizione dell’anno della fede da parte di Benedetto XVI è stata motiva non solo dalla secolarizzazione e scristianizzazione in atto in Europa, ma anche dalla necessità di chiarire l’oggetto di questa virtù, intorno alla quale c’è troppa confusione. Il papa, infatti, ha fatto cenno al grave problema della separazione tra fede e vita, che è una chiara indicazione di un modo sbagliato di pensare alla fede. Se la fede non incide nella vita, è naturale che essa è male interpretata e risolta solo nel compimento di alcuni gesti rituali o in puri sentimenti. Cerchiamo allora di rispondere alla domanda sul significato della fede, ricorrendo alla Bibbia. La Lettera agli Ebrei risponde così: La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono (Eb 11, 1). Anche S. Paolo mette in relazione la fede con la speranza, quando parla della vocazione del battezzato (Ef 4, 1-4). La relazione tra fede e speranza rimanda a sua volta ad una ulteriore domanda: che cosa è la speranza e quali sono le cose che possiamo legittimamente sperare? S. Paolo scrive che nella speranza siamo stati salvati (Rm 8, 24). Prima però fa un discorso sull’attesa di riscatto di tutta la creazione, che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio e di essere liberata dalla caducità nella quale il peccato dell’uomo l’ha fatta cadere (Rm 8, 19-23). Garante di questo riscatto è Gesù, ed in lui la speranza non è il dubbio o il timore su ciò che dovrà accadere, ma l’attesa di un compimento certo (Rm 8, 25): essere eredi e coeredi di Cristo (Rm 8, 17). La caducità, nella quale vive l’uomo e il creato che lo circonda, genera il desiderio di una felicità, che resta sempre inappagata. Esiste, pertanto, una relazione profonda tra speranza e felicità: si desidera solo ciò che può rendere felice e riempire di gioia la vita. Ecco perché Gesù ha detto di essere venuto a darci la vita e a darcela in abbondanza (Gv 10,10). La felicità dà senso alla vita e soddisfa la sete del vivere. Ma una felicità fondata sui beni materiali non la estingue del tutto, perché questi appartengono allo stato di caducità in cui versa l’uomo e tutta la creazione. Il denaro, il successo, il sesso, i figli, la scienza, l’arte sono beni, ma temporanei, che non spengono la sete di eternità che si annida nel cuore dell’uomo. Essi possono rendere felici, ma solo momentaneamente, perché rimandano sempre a qualcosa che va al di là di questi beni, in quanto non distruggono la morte, limite ultimo per l’uomo. Essa è l’ultima e più drammatica infelicità, perché distrugge la vita e quindi la possibilità stessa di sperare; quindi, mette in discussione, perché ne mostra il limite, ogni altra felicità possibile nella vita dell’uomo. Ci sono poi delle domande ineludibili per ogni uomo: qual è il senso della vita? come è possibile affrontare il nostro presente, spesso segnato dallo smarrimento e dal dolore per gli insuccessi e per le difficoltà? come sopportare ogni giorno la fatica del vivere? che cosa rimane della vita? che cosa troviamo oltre la morte? Le molte speranze coltivate dall’uomo sono lo sforzo di rispondere a queste domande. Qualora l’uomo durante la sua vita riesce a realizzarne alcune, rimane insoddisfatto ed inquieto perché s’accorge di desiderare ancora altro; intuisce che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere (Benedetto XVI). La speranza allora ci proietta verso l’eternità. Il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce così la speranza: è la Virtù per la quale attendiamo di godere, quando moriamo in grazia di Dio, la felicità piena ed eterna, che è lo stesso Dio. E Benedetto XVI spiega che può essere fondamento della nostra speranza non un qualsiasi Dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme, Gesù, che ha sconfitto la morte con la risurrezione. Abbiamo allora l’indicazione esatta dell’oggetto della nostra speranza: Gesù che ha vinto la morte con la sua risurrezione. Se la morte è il muro contro il quale si infrange ogni nostra speranza terrena, perché la morte le distrugge tutte, allora Colui il quale ha vinto la morte e ci ha aperto la strada dell’immortalità, egli solo può essere l’oggetto vero della nostra speranza, e tutte le altre speranze sono degne di questo nome se conducono a Lui, il fondamento di ogni speranza. Gesù più volte si è presentato come colui che toglie per sempre la sete (Gv 6, 34), colui che fa scaturire nelle persone l’acqua viva che zampilla per la vita eterna (Gv 4, 14). Egli si è definito nel libro dell’Apocalisse come l’Alfa e l’Omega (Ap 1, 8). Con queste espressioni egli voleva affermare di essere il senso della vita, colui che dà compimento alla sete di verità e di bene che c’è nell’uomo. Il fondamento di questa pienezza e compiutezza è la sua risurrezione. Se la morte è limite supremo che rende incompiuta la vita dell’uomo, nel senso che ne spezza il desiderio di andare sempre oltre, di superarsi, di divenire sempre altro, solo chi la vinto la morte può dare senso alla vita, diventando così lui stesso tale significato. Gesù non solo ci conduce a raggiungere il senso della vita, ma è lui stesso questo significato, Mi vengono in mente le parole della parabola del buon pastore: Io sono la porta per le pecore (Gv 10, 7), Io sono il buon pastore (Gv 10, 14). Gesù si presenta nel corso della stessa parabola con due immagini, quella del buon pastore che conduce all’ovile le pecore e quella della porta dell’ovile, attraverso la quale bisogna entrare per trovare salvezza: Io sono la porta: se uno entra attraverso me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo (Gv 10, 9). L’immagine di Gesù va presa chiaramente in senso esistenziale, anche per il fatto che, conclusa la spiegazione dell’immagine, Gesù aggiunge: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10, 10). Gesù è nello stesso tempo colui che ci aiuta a trovare il senso della vita (il pastore che conduce il gregge), e anche colui il cui mistero di morte e di risurrezione dà significato alla vita dell’uomo (la porta attraverso la quale entrare nella sicurezza dell’ovile), perché ne sorregge il dolore, le contrarietà, la morte. Ecco perché Gesù è l’oggetto unico della speranza dell’uomo. Ecco perché la fede ci conduce a Gesù, all’incontro con lui, come unico salvatore dell’uomo. Ecco allora alcune affermazioni solenni di Gesù: O con me o contro di me e chi non raccoglie con me disperde (Mt 12, 30); io sono la vite voi i tralci… Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca… (Gv 15, 1-8); se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita (Gv 6, 53). Nessun grande maestro di vita nella storia dell’uomo ha mai parlato così: per quanto grandi essi siano stati e per quanto importante il loro messaggio, nessuno di loro ha mai preteso di costituire per i propri discepoli il senso stesso della vita. Erano coscienti che il solo pensarlo sarebbe stato pura follia. Gesù no. Egli lo ha detto nella piena consapevolezza di essere l’unico salvatore dell’uomo; e quando si è trovata davanti la folla che dall’euforia di volerlo proclamare re era passata all’abbandono di lui perché considerato pazzo (Gv 6, 52. 59), egli non retrocede di un passo e non rimangia una parola di quelle dette sulla necessità di stabilire un rapporto necessario con lui. Nasce così l’invito da parte di Gesù alla sequela: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6); io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre (Gv 8, 12). La sequela nasce proprio perché si è individuato il bisogno di relazionarsi con lui. Su questa prospettiva quanto cammino ci resta da fare! Sappiamo che la sua sequela è esigente, e perciò non facile. Lo ha detto Gesù stesso invitando i suoi seguaci a prendere la croce sulle spalle e a seguirlo (Lc 14, 27); ha invitato, attraverso il racconto di alcune parabole, a misurare le proprie possibilità prima di decidersi a seguirlo (Lc 14, 28-30). Non dimentichiamo che queste precisazioni sono state fatte da Gesù dopo aver pronunciato le parole sul primato dell’amore verso di lui: Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo (Lc 14, 25). Gesù non ha mai minimizzato le esigenze della sua sequela, anzi è stato molto esplicito (Lc 9, 57-62). A Giacomo e Giovanni pone la domanda: Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato? (Mc 10, 38). E in genere assicura così tutti i discepoli e seguaci: Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire (Lc 12, 11-12). Ma ha garantito anche che la fedeltà sino alla fine avrebbe permesso, con l’ingresso nel regno, il compimento di ogni speranza (Mc 13, 13; Rm 8, 17). del 14/07/2013 Ricerca catechesiRicerca fra tutte le catechesi il termine:
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