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Le Catechesi di Regina Mundi
A 50 anni dall’apertura del Concilio si devono ricordare le parole di papa Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962: “In faccia ai paesi sottosviluppati la chiesa si presenta quale essa è, e vuol essere, come la chiesa di tutti, e particolarmente la chiesa dei poveri”.
Ma chi sono i poveri? La povertà si presenta come un fatto di massa, qualcuno ha detto come un fenomeno di civiltà. Per molto tempo i poveri erano considerati come casi individuali, ed erano inoltre fisicamente vicini. Oggi - attraverso la rivoluzione tecnologica, la globalizzazione, la crescita della popolazione nel mondo, possiamo dire che la povertà si presenta come un fatto universale enorme e profondo. La povertà è un fatto complesso. La parola povero evoca immediatamente l'aspetto economico, che infatti è un aspetto della povertà. Ma, ci sono altri tipi di povertà umana non meno profonda. Ad es., la mancanza di potere decisionale (sulla propria vita, famiglia, società…); la disoccupazione (mancanza di lavoro) perché non solo priva di ottenere dei beni, ma va contro la dignità e i diritti della persona: guadagnarsi il pane; è qualcosa di umiliante, indegno. C’è la povertà dell’ammalato fisico o psichico, il disabile, l’anziano: gli manca il bene della salute; i tossicodipendenti, gli ammalati di aids…; la povertà dell’incolto o analfabeta: gli manca il bene della cultura; di colui che non ha casa o non ha famiglia o deve emigrare per motivi economici o politici, in particolare l’immigrato clandestino, il perseguitato, il nomade, il barbone. Ancora, la povertà di colui che non ha nessuno da amare né si sente amato da nessuno; di chi si sente solo senza poter soddisfare il bisogno di appartenere ad un gruppo, il bisogno di essere riconosciuto nella propria inconfondibile identità individuale, culturale e sociale (cf. ChL 28); il bisogno di sicurezza individuale e collettiva, il bisogno di essere valutato, amato in quanto persona, e così veder “giustificata” la sua esistenza. E, in genere, la povertà di chi si sente abbandonato, dimenticato, disprezzato, odiato, guardato con diffidenza, indifferenza o disprezzo; di colui che si sente sfruttato, strumentalizzato, manipolato, emarginato, plagiato, incapacitato a pensare e a decidere per conto suo, dipendente, impotente, impaurito, schiacciato da strutture o dai potenti di turno; di colui che si sente povero di qualità e di risorse umane personali; di chi si sente vittima dei suoi limiti, del suo cattivo carattere, della sua fragilità psicologica, delle sue incoerenze e peccati, o di quelli altrui; di colui che non vede senso alla vita o sbocco ai suoi problemi, alle sue sofferenze. La povertà anche dei “poveri opulenti”, cioè, di coloro che sono ricchi di cose, ma poveri di valori; la cui vita affoga in un lavoro travolgente di cui sono incapaci di staccarsi; una vita piena di cose, ma vuota di spirito, di amore, magari anche di salute… Le “nuove povertà” sono tante! La sofferenza dei poveri è notata meno dei loro reati, e per questo riduce la nostra pietà nei loro confronti. Periscono di fame e di freddo nel mezzo dei loro simili, ma gli occhi dei benestanti li vedono soltanto quando chiedono l’elemosina, quando rubano e quando delinquono. L’umanità deve aver vergogna della condizione nella quale lascia molti suoi membri: i suoi poveri. Questa vergogna è (o dovrebbe essere) maggiormente sentita dai cristiani che dovrebbero avere verso i poveri il senso della dignità e della giustizia. Si innesca anche un senso di “antitesi” alimentato dalla paura e dalla diffidenza: noi/loro – locali e immigrati, o italiani e stranieri, o occidentali e islamici, eccetera. Spesso, questo timore impedisce di vedere le cose nella verità di Dio. Bisognerebbe vergognarsi invece e provare imbarazzo di fronte a poveri, per l’umanità offesa, per la sproporzione tra il proprio benessere e la miseria degli altri. La povertà non è più un fenomeno da “terzo mondo”.Anche nelle nostre città sta assumendo sempre maggiore visibilità. Spesso rileviamo negli stessi vicini una povertà radicale connessa ai bisogni fisici elementari della natura umana: il nutrimento, l’abbigliamento, la casa, le cure. Stanno crescendo a dismisura i nuovi poveri, i senza lavoro, i senza casa, i ceti medi che faticano e stentano a sbarcare il lunario. Già dal tempo della Novo Millennio ineunte Giovanni Paolo II aveva una visione chiara di questa società dove i poveri sarebbero stati sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Divisi da profondi solchi di ingiustizia sociale e umana. La Chiesa ha sempre fatto proprio il principio evangelico della difesa dei deboli, dei poveri, delle categorie svantaggiate, a partire dalla classiche categorie bibliche dell’orfano, della vedova, dello straniero, in particolare dell’immigrato. Noi, in quanto cristiani e in quanto consacrati, siamo chiamati a coniugare la carità con la giustizia. Se la carità è amore del fratello, la giustizia è amore dei diritti dei fratelli. Non è facile vivere questo precetto evangelico. Le persone di Chiesa, gli operatori pastorali, qualunque sia la loro origine sociale, sono persone che hanno la loro residenza in un mondo che non è del povero. Il mondo del povero si presenta come un “campo di lavoro”, non di residenza. Il mondo del povero è conflittuale, complicato, anche pericoloso. Dobbiamo convertirci e portare il nostro mondo nel mondo del povero, avere lì la nostra casa e da lì uscire ogni mattina ad annunciare il Vangelo ad ogni persona. Nella povertà esistono anche dei profondi valori positivi. Povero in senso positivo è colui che, cosciente dei propri limiti, si apre agli altri per ricevere da loro con semplicità e umiltà, ed è capace di condividere con loro, di dare se stesso, quel poco o molto che ha, convinto che il rapporto tra le persone sia il bene più grande, e la persona dell’altro sia più valida delle cose. Si sente e riconosce bisognoso degli altri e, allo stesso tempo, capace di dare qualcosa, di essere arricchito e di arricchire, di ricevere con gratitudine e di dare con generosità: sa di essere, allo stesso tempo, fame e pane. Povertà come solidarietà, condivisione, comunione; non come privazione, ma come oblatività. Così, un “cuore povero” diventa anche inevitabilmente un “cuore fraterno Si rende conto che è proprio l’egoismo, il chiudersi in se stessi, il più tragico processo di impoverimento umano, poiché imprigiona la persona nel guscio dei suoi limiti, le impedisce di ricevere e di crescere; mentre che nel condividere e amare le persone e le cose trova la sorgente inesauribile della sua pienezza e felicità umana. Dunque, povertà come amore, umanizzazione, fraternità, solidarietà. Così capita, la povertà appare come una virtù umana tra le più fondamentali. Significa liberazione dalla concupiscenza o cupidigia del possesso, dall’egoismo e dal potere, dallo sfruttamento, dal narcisismo e dalla strumentalizzazione degli altri o del creato; significa padronanza di sé e di fronte alle cose: umanizzazione. La semplicità e persino una certa austerità di vita sono un aiuto affinché l’uomo resti pienamente se stesso, umano, degno, signore della creazione, non sciupatore; libero, non schiavo né distruttore; amante, non sfruttatore. Io cosa vivo? Vivo un voto di povertà o il voto di una classe media? Analizzando i dati biblici risulta chiaro che la virtù della povertà evangelica non è qualcosa che può restare nel vago. Essa si incarna in alcune esigenze etiche, che per i seguaci di Cristo hanno valore normativo. Allora il mio voto di povertà deve specchiarsi ogni giorno nei poveri. Il noto cappuccino P. Raniero Cantalamessa fa questa considerazione : “Con che coraggio parliamo di povertà, quando quello che tra noi sarebbe considerato oggi una povertà quasi eroica, per milioni di esseri umani è un fatto normale di tutti i giorni e di tutta la vita, quando non è addirittura un lusso? Digiunare per la vita a «pane e acqua» sarebbe per noi il massimo dell’austerità, mentre per milioni di persone avere «il pane e l’acqua assicurati» sarebbe già una specie di sogno” .( R. CANTALAMESSA, Povertà, Milano 1996, 5-6.) In genere abbiamo un tenore di vita che si colloca fra la classe media e la classe alta del “primo mondo”, lavoriamo di meno della media delle persone attorno a noi che necessitano di guadagnarsi il loro sostentamento. Andiamo subito al significato più vero, alla radice della nostra povertà. A questo riguardo, non impoveriamo la povertà riducendola a questione di soldi! Certo che i soldi c’entrano; ma, perché c’entro io, e la realtà economica e un aspetto della mia vita. Ma, la povertà rivelata da Cristo e in Cristo è qualcosa di molto più profondo. La povertà evangelica –dice l’Esortazione Apostolica Vita Consecrata - è un modo chiaro e concreto di vivere e proclamare che: “Dio è l’unica vera ricchezza dell’uomo. Vissuta sull’esempio di Cristo (aspetto cristologico) che «da ricco che era, si è fatto povero» (2Cor 8,9; cf. Flp 2,5-11), diventa espressione del dono totale di sé che le tre Persone divine (aspetto trinitario) reciprocamente si fanno. È dono che trabocca nella creazione e si manifesta pienamente nell’Incarnazione del Verbo e nella sua morte redentrice (di nuovo, l’aspetto cristologico)” (VC 21c; cf. 22b). la nostra povertà appare come un carisma di semplicità, distacco, solidarietà e fraternità con tutti, a cominciare dai più bisognosi, “la predilezione per i poveri e la promozione della giustizia” (VC 82). Un carisma che ci spinge ad avere persino un amore preferenziale –non esclusivo- per i poveri (VC 82, 90). Il povero, infatti, diventa il primo –non l’unico-, dopo Colui che è il vero Primo e l’Unico: Dio. E tutto questo, dice ancora l’Esortazione, il consacrato lo vive con: “sovrabbondanza di gratuità e d’amore, e ciò tanto più in un mondo che rischia di essere soffocato nel vortice dell’effimero” (VC 105a). Per poter vivere questa povertà bisogna vivere la povertà di Cristo che si è fatto come noi per farci come Lui (cf. 2Cor 8,9). Il mistero trinitario ed il mistero della salvezza sono un mistero di “povertà”, cioè, di donazione totale di sé, per amore, all’Altro. Cristo è il povero per eccellenza. Egli si dà completamente, per amore e liberamente (Gv 10,17-18); vive in un atteggiamento di totale disponibilità a quanto il Padre voglia da Lui, distaccato da tutto e da tutti (povertà), a cominciare dalla Sua famiglia naturale (celibato), in favore della missione ricevuta (obbedienza) (Lc 2,49; Mt 12,49-50). E sulla croce visse il momento culminante di questa povertà. E in questa situazione di povertà, sradicamento e solitudine totale, reagisce con un grido che è, allo stesso tempo, di angoscia (perché è umano) e di fiducia nel Padre malgrado tutto, il grido di chi è diventato totalmente povero, di colui che è rimasto senza nessun potere e nessuna sicurezza all’infuori di quel Dio lontano: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46; Sal 31,6). Sembra l’insuccesso totale; e, invece, è l’inizio di tutto La povertà esterna di Gesù non è fine a se stessa ma espressione spontanea, consequenziale, libera, dell’amore al Padre e ai fratelli, fino a dare la vita per loro (Mc 10,45; Gv 10,117-18; 15,13). La Sua povertà non è, innanzitutto, una “rinuncia a”, bensì una “scelta in favore di”, per amore, con tutte le conseguenze, compresa l’eventualità della morte in croce. Non si deve confondere lo spirito di povertà evangelica con la miseria o la mancanza di gioia e felicità. A questo punto, qual è allora il significato della povertà evangelica in noi? - Innanzitutto, la povertà è una realtà interna, un atteggiamento e un vissuto interiore (cf. Mt 5,3), frutto e conseguenza della fede. Riconoscere cioè, il primato di Dio su tutto e su tutti e, in conseguenza, la donazione totale a Dio in Cristo, come l’Unico necessario. La sua austerità di vita, la condivisione comunitaria dei beni, ecc., non saranno altro che proclamare questo primato di Dio e questa disponibilità ai fratelli che sono tipici di ogni vita cristiana. - La povertà evangelica è disponibilità in favore del Regno. La povertà esterna non saranno altro che conseguenze di quell’atteggiamento interno di libertà e disponibilità a Dio e ai fratelli, come Cristo. Infatti, ad imitazione di Lui (cf. Flp 2,7), il consacrato si spoglia, si svuota di se stesso, si distacca da tutto (persone: famiglia-celibato, beni: povertà materiale, e autonomia: obbedienza) con lo scopo di restare aperto e disponibile a Dio e ai fratelli. A questo riguardo, mette innanzitutto la propria persona (il bene più grande che ha) a disposizione; si dà senza riserve, si fa tutto a tutti (1Cor 9,19-23). Povertà dunque come donazione, come vita di carità, e non come disprezzo di qualcuno o qualcosa, o come semplice ascetismo..S.Paolo infatti dice: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze (povertà materiale, come facevano taluni filosofi greci) e dessi il mio corpo per essere bruciato (la morte cruenta), ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Cor 13,3). Dirà poi s. Agostino: “La fede cristiana non è un mistero di rinuncia o di ascetismo, né di dolore; ma, di amore e comunione” (1Gv 1,3), perché così è Dio (1Gv 4,8,16), così si è manifestato (Gv 3, 16s) e così ci ha santificato (Rm 5,5). In questo modo, la vita del consacrato è chiamata a diventare uno stato di disponibilità universale ed incondizionata, di servizio, solidarietà, semplicità, sovrabbondante gratuità (cf. VC 104-105), secondo le caratteristiche di ciascun carisma. Infatti, mette a disposizione di Dio e dei fratelli (obbedienza), la sua persona, la sua vita (l’unica che ha!), il suo amore (celibato), le sue cose (povertà esterna), i suoi pregi, il suo tempo. Per lui/lei qualsiasi forma di individualismo, di ripiegamento su se stesso, di egoismo, di chiusura, di negazione della parole o del rapporto umano, di mancanza di collaborazione, di pigrizia, di comodismo, ecc., sono tutte mancanze contro la povertà evangelica, perché significa che non dà, non condivide, qualcosa che potrebbe dare! Ecco perché la povertà evangelica coinvolge anche, ovviamente!, la realtà economica; ma, impegna molto di più del portafoglio: la vita, la persona tutta quanta! Quando “si è poveri” dentro non può non riflettersi su quanto si ha. Sebbene, per quanto si riferisce agli aspetti più esteriori e materiali, bisognerà aver presente: il momento storico in cui si vive, il luogo o società in cui ci si trova, e il carisma e missione da portare a termine. Ciò che può essere austero in un’epoca, in un luogo o secondo un carisma, può non esserlo in un altro o per un altro. La fedeltà creativa alle proprie radici vocazionali (cf. VC 36-37) e l’attenzione vigilante e critica ai segni dei tempi (cf. VC 87-92), ci diranno come va capito e vissuto. Non si deve confondere lo spirito di povertà evangelica con la miseria o la mancanza di gioia e felicità. Per il cristiano, infatti, i beni non sono un male, ma un bene da condividere, un mezzo per vivere ed esprimere la comunione. In sostanza, il consacrato vive la povertà nello spirito di comunione. “Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell'unità profonda del Corpo mistico, dunque, come « uno che mi appartiene », per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. “ Tale povertà evangelica si pone come fonte di pace, perché grazie ad essa la persona può instaurare un giusto rapporto con Dio, con gli altri e con il creato. La vita di chi si pone in quest’ottica diventa, così, testimonianza dell’assoluta dipendenza dell’umanità da Dio che ama tutte le creature, ed i beni materiali vengono riconosciuti per quello che sono: un dono di Dio per il bene di tutti. La povertà evangelica è una realtà che trasforma coloro che l’accolgono. Tali poveri secondo il Vangelo sono pronti a sacrificare i loro beni e se stessi perché altri possano vivere. Unico loro desiderio è di vivere in pace con tutti, offrendo agli altri il dono della pace di Gesù (cf Gv 14, 27)”.A partire da queste parole possiamo dire che la povertà evangelica si pone come fonte di pace. Povertà e pace sono due facce dello stesso mistero di Cristo. La pace trova nella povertà evangelica e nella preghiera due condizioni fondamentali. Maria è colei che ha vissuto la vera “povertà evangelica che è fonte di quella pace che solo da Cristo procede. La via della Povertà conduce Maria ad essere “icona della Pace” Contemplandola, troviamo in Lei il perfetto modello di consacrazione e di donazione totale a Dio nella castità, povertà e obbedienza e la comunione con i fratelli. del 27/06/2013 Ricerca catechesiRicerca fra tutte le catechesi il termine:
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